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La confraternita dei carrellanti

Maledetto, t’amerò

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: ”Il golf è un esame continuo delle proprie capacità di tradurre la teoria in pratica. E gli esami non piacciono a nessuno. Ma sono una sfida affascinante.”.”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

 

Il golf è un esame continuo delle proprie capacità di tradurre la teoria in pratica. E gli esami non piacciono a nessuno. Ma sono una sfida affascinante.”

Come tutti sappiamo da tempo, la frase più pericolosa per un Carrellante è: “Ho capito tutto”. Viene incautamente pronunciata, di solito, in uno di quei non frequenti giorni di grazia, quando i drives volano dritti, gli approcci molestano l’asta e perfino i putt, eterna disperazione del golfista, manifestano una cordiale inclinazione a rotolare in buca.

Così il golf viene restituito a quella sua naturale semplicità che esclude a priori le flappe, i rattoni o le traiettorie sbilenche: quella da rabdomanti che trovano l’acqua o quelle ambientalistiche che accarezzano gli alberi. Non ci sono quasi errori, in quei momenti ispirati, tranne uno, il più grosso: pensare che tutto questo non sia frutto del caso ma di una tecnica finalmente domata.

Sappiamo bene, a mente fredda, che non è così; che il golf, amante volubile, non si possiede mai completamente. Ma ci illudiamo che, da quel fatidico momento, non ci tradirà più.

Con questa premessa, mi guarderò bene dal dire di aver capito tutto. Con estrema cautela mi limiterò ad affermare di aver compreso perché il golf, alternativamente, seduca e respinga con identica intensità. Tutti, inizialmente, siamo stati attratti dall’ opportunità di immergerci nel verde, in posti mediamente stupendi: perché un campo da golf può essere più o meno bello, più o meno vario, ma brutto mai. Se ti va male, deambuli comunque per qualche ora a contatto con la natura; se ti va bene (cioè se il campo è di quelli “top”) godi di scorci entusiasmanti e di incontri interessanti (scoiattoli, lepri, cerbiatti, aironi o anche alligatori, come da recente esperienza in South Carolina).

L’incanto, però, ha breve durata. Quando, con l’affinamento della tecnica, subentra la ricerca di uno score decente, l’unica vista agognata è la tua pallina bianca in centro fairway. Se non si verifica, l’originale seduzione è svanita e serpeggiano le prime disarmonie: quella quercia è stupenda, ma mi costringe a droppare con penalità; quel laghetto solcato da paperelle (Svassi? Germani Reali?) è una delizia ma intanto s’è inghiottito il mio ferro al green e il mio progetto di par. La natura che ci affascinava s’è già rivelata matrigna. Ma non è nemmeno questo il punto-chiave.

L’implacabilità del golf risiede, soprattutto, nel denudare i limiti del Carrellante che, ad ogni uscita, si sottopone volontariamente a un test sulla sua capacità di convertire la teoria in pratica. Gli esami, ammettiamolo, non piacciono a nessuno, ma sono sempre una sfida. E 18 buche sono un esame continuo, da un giro all’altro e perfino nello stesso giro. Lo stesso colpo sulla stessa buca con lo stesso ferro ora decolla perfettamente, ora striscia (o piega, o rantola) perdendosi nell’indefinito. E il Carrellante si trova costretto a prendere atto, con dolore, di non saper ripetere lo stesso gesto per un numero ragionevole di volte.

All’atto di portar dietro il bastone per caricare il colpo, non sa cosa aspettarsi da quello che accadrà un attimo dopo. Nei giorni-sì, non ci sono incognite; nei giorni-no, non ci sono certezze. E’ proprio questa continua verifica della nostra capacità di passare dalla teoria alla prassi la ragione che ci spinge a provare e riprovare, giocare e rigiocare.

Domani è un altro giorno, pensiamo sull’ultimo fairway di un round disgraziato. E infatti l’ultimo approccio se ne va via col vento, lasciandoci la voglia di ricominciare. Se fosse possibile, anche un minuto dopo la 18esima buca.

Questo ho capito, non l’essenza del gioco che, per definizione è inconoscibile (Emanuele Kant ci ha costruito una discreta carriera con la storia del noumeno, l’inconoscibile essenza della realtà: e non giocava a golf…). Ho capito che giocare a golf è fare i conti con se stessi; ho capito che giocare a golf è costringersi a non ripetere sempre gli stessi errori (esempio: restare corti al green solo per non prendere un ferro in più); ho capito che dover imbucare un putt alla 18 per vincere (o, dio ci scampi, evitare una virgola) mi dà più tensione che affrontare una diretta in tv di molte ore. Ma non chiedetemi come si gioca a golf. Questo non l’ho capito.

La confraternita dei carrellanti

Umiltà in campo pratica, la vera lezione di un Open

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: ”Quando capita di seguire un torneo dei Pro, si spera sempre di rubar loro qualche segreto. È una vana speranza, come pensare di replicare Verstappen guidando la nostra auto. E invece ci sarebbero un luogo e un momento dove rubare qualcosa per migliorarsi.”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

Quando capita di seguire un torneo dei Pro, si spera sempre di rubar loro qualche segreto. È una vana speranza, come pensare di replicare Verstappen guidando la nostra auto. E invece ci sarebbero un luogo e un momento dove rubare qualcosa per migliorarsi.

Argentario golf club

Scrivo queste righe mentre seguo sul bel campo dell’Argentario l’82esima edizione dell’Open d’Italia.
Assistere a una gara di qualsiasi tour professionistico trasmette sempre al Carrellante un mix di sensazioni contrastanti. Partiamo da un dato, incontestabile: il pubblico del golf (quando c’è, e qui purtroppo non ce n’è molto sia per il gran caldo sia per la collocazione un po’ defilata del Club, accattivante e ottimo per chi sia in vacanza in Maremma, ma lontano da qualsiasi grande città) è composto quasi esclusivamente da praticanti. È un caso pressoché unico: nessuno assiste a una gara di Formula 1 pensando di replicare le performance di un Verstappen o di un Leclerc, così come chi ha applaudito per anni Federica Pellegrini non si è mai sognato di poter nuotare come lei. Si assiste, si tifa, si partecipa per passione sperando di veder vincere il proprio idolo. Ma quanto a imitar loro, che si tratti di Sinner o (a suo tempo) Yuri Chechi, di Pecco Bagnaia o Lamin Yamal, nessuno si lascia minimamente attraversare dall’idea.
Qui no. Qui la pallina è ferma per loro come per noi, e non c’è, come nel tennis ad esempio, un demonio tipo Alcaraz che dall’altra parte della rete te la scaglia contro a 200 km/h; i campi son gli stessi (ovviamente accorciati ad usum Carellantium), di bastoni 14 ne han loro e 14 noi. Insomma tutto congiura a scatenare un processo di identificazione-invidia che non avrebbe senso di essere ma c’è, inutile negarlo.
L’errore che tutti commettiamo è di non limitarci ad ammirare e applaudire. No, noi no: noi stiamo lì nella vana speranza di rubare qualche segreto che consenta di migliorare le nostre traiettorie, così diverse dalle loro, alte, lunghe e maestose annunciate da uno schiocco all’impatto in nulla parente del rumore prodotto dai colpi del nostro repertorio.
E allora il mix di sensazioni di cui sopra si articola attraverso la triade ammirazione-invidia-sconforto. Voi direte che tutto ciò è semplicemente assurdo e avete pure ragione. Ma non potrete negare, in tutta onestà, che sia capitato anche a voi, se e quando vi siate trovati lungo i fairway di un qualsiasi Open.
In verità c’è anche un quarto elemento e si chiama consolazione. Si manifesta quando qualcuno di questi sperimentati professionisti incappa in un errore banale come una flappa, uno shank o un putt corto non imbucato. Sono quelli i momenti in cui il Carrellante-tipo si sente confortato, direi addirittura legittimato, senza minimamente considerare che quelle momentanee défaillances a noi così consuete per loro rappresentano una sciagurata ma rarissima eccezione.
E però ci sarebbero un luogo e un momento, nel corso di un Open, ideali per riuscire davvero a riportare a casa qualcosa di utile ai nostri poveri score. Il luogo è il campo pratica, il momento ovviamente è quello in cui tutti i pro si preparano alla partenza o re-impostano il lavoro per il giro successivo. Qui il Carrellante, se avesse l’umiltà e l’accortezza di spenderci un po’ di tempo, scoprirebbe come campioni collaudati ricorrano a correttivi e accorgimenti che lui ha ripudiato da tempo ritenendo acquisita una certa tecnica di base. Aste conficcate nel terreno con un’angolazione idonea a punire un errato piano di swing; asciugamani tesi da un’ascella all’altra per mantenere la corretta connessione delle braccia; caddie che tengono il grip di un bastone sulla testa del loro pro per indurlo a tener ferma la testa. Non c’è maestro che non ci abbia sottoposto a trattamenti del genere che – ammettiamolo – ci sembravano umilianti oltre che fastidiosi. E che, in massima parte, abbiamo archiviato ritenendo di aver acquisito un livello superiore di gioco. E invece si viene qui e si constata che con molta umiltà i campioni si sottopongono a quei “trattamenti” che noi abbiamo ripudiato.
Umiltà. Non dovrebbe essere questa l’unica lezione da apprendere studiando i campioni?

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La confraternita dei carrellanti

E venne l’anno di Bufalo Ball

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: ”Con l’approssimarsi del ritorno alla stagione piena del golf, ho deciso che anni di delusioni richiedevano una svolta esistenziale. Perciò ho cambiato maestro. Ho bussato alla porta di un maestro cinese di vita. Di vita zen”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

 

Con l’approssimarsi del ritorno alla stagione piena del golf, ho deciso che anni di delusioni richiedevano una svolta esistenziale. Perciò ho cambiato maestro. Ho bussato alla porta di un maestro cinese di vita. Di vita zen

Anno nuovo, vita nuova. Detta così, è un po’ banale. In realtà, con l’approssimarsi del ritorno
alla stagione piena del golf, ho deciso che anni di delusioni richiedevano una svolta esistenziale. Perciò ho cambiato maestro.

No, un attimo: cerchiamo di capirci. Non era questione di modificare lo swing, nelle mille fasi in cui è maledettamente articolato (che ce n’è sempre una che va a posto e un’altra che va in crisi: bene il take away, male il down swing; bene take away e down swing, male il finish; bene il finish ma sei tornato a muovere la testa nel take away ecc.). Stavolta la questione era più profonda. Si trattava di modificare il mio atteggiamento nei confronti di quella simulazione della vita che è un giro di 18 buche. In breve: non sono passato da un maestro di golf a un altro. Ho bussato alla porta di un maestro cinese di vita. Di vita zen.

L’inizio non è stato dei migliori. Per individuare il mio segno zodiacale cinese, ho dovuto declinare, malvolentieri come da qualche tempo mi capita, la data di nascita completa di anno (funziona così da quelle parti). Scoperta spiacevole: per un solo giorno non sono nato sotto il segno della Tigre. Ora capirete che, per un golfista, il segno della Tigre esercita un certo fascino, dopo che “quella” Tigre ha fatto quello che ha fatto (e speriamo tutti che abbia in serbo ancora qualche cartuccia da sparare). Però, niente da fare: per 24 ore mi ritrovo sotto il segno del Bufalo e, francamente, non è la stessa cosa. Rassegnato, ho chiesto al Maestro, in qualità di Bufalo cosa mi devo aspettare. Spalancando un sorriso radioso, mi ha reso partecipe di quella che lui ritiene una grande fortuna: il 2016, per il calendario cinese, è l’anno della Scimmia. L’ho incautamente interrotto facendogli notare che io la scimmia ce l’ho appollaiata sulle spalle da una quindicina d’anni, da quando cioè ho visto per la prima volta
decollare in campo pratica una pallina dalla faccia di un ferro 7, ma mi ha intimato di tacere.

“Nell’anno della Scimmia – ha detto, un po’ infastidito e in tono sostenuto – il Bufalo deve
aspettarsi molte soddisfazioni ma, attenzione, non le soddisfazioni facili. Si tratta di soddisfazioni che si raggiungono sul campo con fatica e dedizione”. Sul campo con fatica e
dedizione. E sai che novità, ho pensato. Se davvero mi piazzo sul campo (pratica) con fatica e dedizione, per un generoso numero di ore a settimana, magari riesco davvero a purificarmi
dallo slice che mi affligge “ab aeterno”. Però, in tutta onestà, non c’era bisogno di un Grande
Maestro Zen per scoprire che allenandomi di più posso migliorare lo score.

Piuttosto deluso, faccio per alzarmi e salutare, ma il Maestro mi fulmina con lo sguardo:  “Dove va ? Abbiamo appena cominciato. Devo comunicarle che, come Bufalo, lei intratterrà ottimi rapporti col Topo” (ah bè, allora siamo a posto) “e ancora, fondamentale, le devo comunicare l’elemento che si abbina alla Scimmia nella definizione di questo anno che, per noi cinesi, è appena cominciato. Non è il legno” (peccato: avrei bisogno di una protezione celeste per i colpi con i legni da terra) “Non è il ferro” (idem: dal ferro 9 al 5 non ne tengo una dritta) “Non è la terra” (ahi, i bunker !) “Non è l’acqua” (forse è meglio:già ci finisco troppo spesso). “Questo – e la voce del Maestro si è fatta solenne – è l’anno di Scimmia-Fuoco. E deve indurla, in ogni istante, ad approfondire la conoscenza di se stesso.” Basta, avevo sentito già troppo. Fra scimmie, topi e bufali avevo in testa una gran confusione. E poi, conoscere me stesso: grazie, no. Quello che di me ho conosciuto sul campo da golf mi basta e mi avanza. E infatti mai nella mia vita mi sono autoinsultato tanto come da quando gioco a golf.

Praticamente, sono scappato ma già per le scale, messa mano al cellulare, ho telefonato al mio maestro. Di golf, stavolta. Ho prenotato una lezione “ma – ho precisato – da affrontare con fatica e dedizione”: parole che hanno un po’ sconcertato il maestro.

Mi sa che non è del segno del Topo.

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Mille giorni da pecora

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: ”Narra la leggenda che i bunker, in origine, fossero le buche di riparo dal vento scozzese per le greggi mentre i loro pastori inventavano il golf. Ma con tutta quella lana addosso avevano proprio bisogno di creare quei maledetti ostacoli di sabbia?”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

 

Narra la leggenda che i bunker, in origine, fossero le buche di riparo dal vento scozzese per le greggi mentre i loro pastori inventavano il golf. Ma con tutta quella lana addosso avevano proprio bisogno di creare quei maledetti ostacoli di sabbia?

La leggenda del golf vuole che gli attuali bunker distribuiti a piene mani dai progettisti lungo i campi siano gli eredi delle buche dove le pecore delle Higlands scozzesi cercavano riparo dal vento, stringendosi l’una all’altra. Siccome i pastori, per ingannare il tempo, s’erano inventati questo giochetto di bastoni e palline di fortuna sulle stesse strisce erbose in riva al mare, le fosse anti vento delle loro pecore finirono col far parte del percorso, diventando anche un elemento caratteristico del golf fin dalle sue origini. L’immagine fa una certa tenerezza: le
povere pecorelle flagellate dal vento del nord (lo conosce bene chiunque abbia avuto la
fortuna di giocare da quelle parti) che si stringono l’una all’altra in quei ripari di fortuna. Altro
non avevano a disposizione: sui links non ci sono alberi né abbondano le colline. Così le
poverine si ammassavano per farsi caldo a vicenda e, calpestando e ricalpestando l’erba, ne
facevano affiorare il fondo sabbioso.

Devo anche dire, però, che ogni tenerezza svanisce quando la nostra pallina finisce nella sabbia, anziché in asta (o in fairway, nel caso di un drive), come si era sperato. Ma proprio qui dovevano venire a scaldarsi le pecorelle? Se poi ci si trova appunto in Scozia, dove le sponde sono roba da free climbing oppure hanno la forma di un perfetto cilindro poco più largo di noi stessi, qualche maledizione ai pur amabili quadrupedi ci scappa. Loro non ne hanno colpa, ma, benedette pecore, se non avessero preso l’abitudine di scavar quelle fosse, oggi noi avremmo qualche guaio in meno. E sì che di lana ne hanno addosso per proteggersi.

Inutile negarlo: il bunker, per molti Carrellanti, resta uno dei misteri dolorosi del golf. Più o meno tutti sanno, dai maestri, come comportarsi. I piedi infossati, il bounce del sand wedge da far lavorare, la sabbia da colpire prima della palla (ma non troppa, né troppo poca), l’accelerazione da continuare dopo l’impatto. Sulla teoria, più o meno, ci siamo. E’ la pratica,
però, che ci frega. Per quanto io giochi e per quanti compagni di gioco io possa cambiare, non
sento mai salutare con soddisfazione l’atterraggio di una pallina nella sabbia. Perché lì dentro
non c’è pressoché nessuno che abbia certezza dell’immediato futuro (non parlo dei quasi
scratch: e anzi con loro non voglio nemmeno parlare). Poca sabbia, troppa sabbia; asta lunga uscita corta; asta corta, uscita lunga. La verità? In bunker quasi nessuno è veramente padrone del proprio destino.

Nella sabbia sprofonda anche il nostro orgoglio. Ed è proprio la semplicità con cui i giocatori del Tour imbucano o lasciano la palla data dal bunker a provocare nel telespettatore una sensazione mista d’invidia e di sconforto.

Loro, come si sa, vedono la sabbia come male minore in caso di green mancato. Noi ci sentiamo più tranquilli perfino nel rough duro e spesso dell’avant-green: un attimo dopo,
quando la pallina flappata resta lì oppure scappa via per effetto di un top, ci accorgeremo che
sarebbe stato meglio sfidare la sabbia, ma tant’è: la nostra mente è fatta così.

Personalmente cerco di dedicare sempre un po’ di pratica specifica a questo benedetto tipo di
colpo con cui non si riesce a fare pace. Rovescio in bunker un cestello intero di palline, provo
le diverse uscite (corta, lunga, media), i diversi lie (in piano, in salita, in discesa), la diversa
quantità di sabbia. Al netto di qualche colpo pesante che non passa la sponda, i risultati sono
buoni a conferma che la pratica è l’unico rimedio possibile.

Poi vado in campo e tutto cambia, come al solito. E mentre la pallina, colpita troppo netta, vola oltre il green, ricomincio a contare le pecore. E anche a maledirle un po’, sia pure
affettuosamente.

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Al diavolo i tre putt

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: ”Materializzatosi alle mie spalle chissà quando, chissà da dove c’era uno strano individuo: cappellino nero con visiera rossa e la scritta “Devil’s”, polo rossa, pantaloni neri un po’ antiquati, a zampa larga. Ai piedi, un paio di Mephisto. Mi fece una proposta…”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

 

Materializzatosi alle mie spalle chissà quando, chissà da dove c’era uno strano individuo: cappellino nero con visiera rossa e la scritta “Devil’s”, polo rossa, pantaloni neri un po’ antiquati, a zampa larga. Ai piedi, un paio di Mephisto. Mi fece una proposta…

 

La maledizione dei tre putt aveva colpito ancora. Così un giro tutto sommato solido nella sua
regolarità era stato sfigurato dagli errori sul green fino all’esecrato virgolone. Sorbita senza
voglia la birretta di circostanza del post-gara, era stato inevitabile rinviare il momento del
ritorno a casa, dove avrei dovuto simulare sorrisi e canzoni per non sciropparmi la coniugale
lezione di vita sull’impossibilità di guastarsi l’umore per una pallina ribelle. Col solito finale al
veleno: “Alla tua veneranda età (è quel veneranda ad assestare l’ultima coltellata del giorno –
n.d.a.) non è possibile rovinarsi le giornate per stupidaggini del genere”.

Un po’ per questo, un po’ per disintossicarmi ero tornato sul putting green per dimostrare a
me stesso che, sì, ero capace di limitarmi a due putt da qualsiasi distanza.

Scavalcato il fastidioso assembramento di quelli che, avendo giocato bene, stazionano per ore davanti alla classifica in attesa di congratulazioni dai passanti, eccomi lì alla ricerca del feeling perduto con il diabolico strumento.

Imbucavo poco anche lì, ma almeno il vibrione dei tre putt sembrava debellato. Di metter
dentro il primo, però, manco a parlarne.

“Fausto,ti piacerebbe imbucarli tutti ?”. Chi aveva parlato? Ricordavo di esser solo sul green di
pratica. Mi sbagliavo. Materializzatosi alle mie spalle chissà quando, chissà da dove c’era uno
strano individuo: cappellino nero con visiera rossa e la scritta “Devil’s”, polo rossa, pantaloni
neri un po’ antiquati, a zampa larga. Ai piedi, un paio di Mephisto. “Non mi chiamo Fausto. E tu chi sei? Un tifoso del Milan ?” ho chiesto, un po’ sconcertato. “In un certo senso, sì. Ma non mi hai risposto, Fausto: ti piacerebbe, ripeto, imbucarli tutti ?”. “Che domanda! A chi non
piacerebbe?”. “Beh, io so come si fa. Vuoi provare?”. Eccone un altro, ho pensato. Un altro
presidente dei consigli, uno che crede di aver capito tutto e fa il professore. E insiste pure a
chiamarmi Fausto. Senza aspettare risposta, mi piazza alle orecchie due auricolari. A volume
insopportabile c’è Mick Jagger che strepita. “Grazie, non amo gli Stones. Ho sempre preferito i Beatles.” Faccio per liberarmi dal frastuono, ma il figuro mi blocca: ”E vorresti imbucare con
qualche nenia tipo Michelle o Yesterday? Ma fammi il piacere. E’ Sympathy for the Devil:
ascolta, concentrati e tira.” Il tono s’era fatto un po’ inquietante. Va beh, lo assecondo e me lo levo da torno. Putt da 7-8 metri: buca. “Prova ancora” mi fa con un ghigno mentre Mick Jagger continua a martellare:

«Se mi incontrate siate cortesi,
abbiate comprensione, e abbiate un po’ di buongusto,
siate educati come vi hanno insegnato
altrimenti disporrò che la vostra anima sia dannata»

Per essere sicuro di sbagliare e farla finita, mi piazzo a una decina di metri in discesa. Centro
buca. “Diavolo!”. “Eh, già: diavolo – fa il figuro – ci credi adesso? Mi vuoi come coach?” “E che faccio, vado in campo con Mick Jagger negli orecchi? E’ vietato, no?”. “Lo so che è vietato, ma questa è solo una dimostrazione. Tu fai un patto con me e ti garantisco che diventerai scratch in un paio di mesi. E non risalirai più. Farai score da favola. E soprattutto, mai più tre putt: te lo garantisco”. ”E tu quanto vuoi?”. “Poco. Solo la tua anima. Tanto, sei convinto di non avercela se è vero che te la fai sotto ogni volta che devi puttare, specie da vicino, quando non si può sbagliare. Allora, ti va l’affare?”. Stavo per rispondere sì, come la sventurata Monaca di Monza, quando ho sentito qualcuno scuotermi forte le spalle. Smarrito, ho visto su di me il viso angosciato di mia moglie: “Stai delirando, urli, parli di anima. Svegliati. Vuoi un po’d’acqua? Deve essere un incubo !” Sì, un incubo. Mica tanto, però. Forse era un sogno.

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Il mistero di certi giorni-no

Un nuovo episodio di Massimo De Luca: “Perché all’improvviso il mondo si mette a girare al contrario e i punti di forza del gioco diventano una zavorra che fa naufragare lo score ?”

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Massimo De Luca, grande firma del giornalismo sportivo italiano e appassionato golfista

 

“Perché all’improvviso il mondo si mette a girare al contrario e i punti di forza del gioco diventano una zavorra che fa naufragare lo score ?”

 

Avevo concluso da poche ore una di quelle giornate di gara che ti lasciano un solo desiderio: piantarla lì, vendere sacca ferri e carabattole destinando tutto a una Onlus, per volgere il male in bene. Mezzo tramortito dalla delusione, sul divano davanti alla tv, simulavo interesse per un film di cui non m’importava nulla mentre la mente vagava a ricostruire i nove (dicesi nove) doppi bogey incasellati quel giorno nello score. Dovevo assolutamente fingere d’interessarmi a quel film francese giocato, come da tradizione, soprattutto sui dialoghi: se avessi tradito il mio vero stato d’animo (che aspirava solo all’oblìo di un sonno ristoratore) avrei dovuto sorbirmi la comprensibile reazione della mia compagna di vita, destinata peraltro a diventare tra poco bastone della mia vecchiaia (non so che bastone sarà: se un ferro, un legno o un putter. Spero solo che mi assista meglio dei bastoni della mia sacca). “Non basta che stai via tutto il giorno ? – mi avrebbe detto – Devi anche tenere il muso perché hai giocato male?”.

Esibivo, quindi, un generico sorriso ebete come se stessi davvero seguendo il filo della trama, della quale, in realtà, ignoravo quasi tutto, impegnato come ero a ricostruire buca per buca quella giornata di naufragi. E mentre gli attori si scambiavano dialoghi brillanti, io continuavo a rimuginare il mistero di certi giorni in cui il mondo gira al contrario. Perché? Perché? Perché un abituale punto di forza (chip, ferri a correre, lob shot) che avevano sempre compensato la modesta gittata dei miei colpi lunghi, in certi giorni diventa improvvisamente una zavorra, un festival di mezze flappe, di approcci troppo lunghi o troppo corti, aprendo la strada ai doppi bogey? Perché non è possibile, in questo benedetto sport, sentirsi mai sicuri di qualcosa e in quei certi giorni ritrovarsi invece senza le poche certezze faticosamente conquistate negli anni? Cosa diavolo succede in certi giorni?

In una situazione così delicata, lo scoccare della pausa pubblicitaria fu quasi un sollievo e mi sorpresi a dedicarle un’attenzione insolita. Fu così che restai folgorato da uno spot. Non il primo, che magnificava le doti della solita macchina che promette di andare su tutto (come il beige nell’abbigliamento) e si paga un tanto al mese e poi, a babbo morto, ci si pensa. No, quello mi lasciò indifferente, ma l’incipit del secondo fu magnetico: “Per sentirti a tuo agio in quei tuoi certi giorni…” . Urca, pensai, stanno parlando proprio di me. Vuoi vedere che hanno inventato una pillola, un integratore, un elisir, una pozione in grado di prevenire lo stato confusionale che s’impadronisce di molti carrellanti in quei certi giorni di mistero? Mano al telecomando, volume quasi al massimo che fece sobbalzare mia moglie, appisolatasi sul primo spot. “….per quei tuoi certi giorni” ecco, fra un attimo avrei avuto un consiglio per gli acquisti finalmente utile ma l’agrodolce metà, riavutasi repentinamente, coprì con la sua voce il sospirato annuncio. “Che c’è – disse – ti interessi d’igiene intima femminile adesso? Non vedi che stanno pubblicizzando un salvaslip per signore?”. Era vero, tragicamente vero. Con la penna ancora in mano, avvertii un po’ di disagio. Non ci avevo fatto una gran figura.

“Andiamo a dormire, va’. Tanto l’ho capito che del film non te ne frega niente. “ Ma sì, vieni sonno rigeneratore. Domani sarà tutto diverso e qualche colpo in campo pratica proverà a me stesso che il mio gioco è ben altro da quello esibito in gara. Capirò sicuramente tutto e non sbaglierò più un approccio: anzi, ne metterò tanti in asta, da imbucare con una mano. Solo che – temo – nel frattempo sarà andato in crisi il driver.

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