TESTO: MASSIMO DE LUCA
Il golf è un esame continuo delle proprie capacità di tradurre la teoria in pratica. E gli esami non piacciono a nessuno. In compenso, come si sa, non finiscono mai, ma sono una sfida affascinante.
Come tutti sappiamo da tempo, la frase più pericolosa per un Carrellante è: «Ho capito tutto». Viene in cautamente pronunciata, di solito, in uno di quei non frequenti giorni di grazia, quando i drive volano dritti, gli approcci molestano l’asta e perfino i putt, eterna disperazione del golfista, manifestano una cordiale inclinazione a rotolare in buca.
Così il golf viene restituito a quella sua naturale semplicità che esclude a priori le flappe, i rattoni o le traiettorie sbilenche: quella da rabdomanti che trovano l’acqua o quelle ambienta-
listiche che accarezzano gli alberi. Non ci sono quasi errori, in quei momenti ispi
rati, tranne uno, il più grosso: pensare che tutto questo non sia frutto del caso ma di una tec-
nica finalmente domata.
Sappiamo bene, a mente fredda, che non è così; che il golf, amante volubile, non si possiede mai completamente. Ma ci illudiamo che, da quel fatidico momento, non ci tradirà più.
Con questa premessa, mi guarderò bene dal dire di aver capito tutto. Con estrema cautela mi limi terò ad affermare di aver compreso perché il golf, alternativamente, seduca e respinga con identica intensità.
Tutti, inizialmente, siamo stati attratti dall’opportunità di immergerci nel verde, in posti mediamente stupendi:
perché un campo da golf può essere più o meno bello, più o meno vario, ma brutto mai. Se ti va male, deambuli comunque per qualche ora a contatto con la natura; se ti va bene (cioè se il campo è di quelli «top») godi di scorci entusiasmanti e di incontri interessanti (scoiattoli, lepri, cerbiatti, aironi o anche alligatori, come mi è capitato in South Carolina). L’incanto, però, ha breve durata.
Quando, con l’affinamento della tecnica, subentra la ricerca di uno score decente, l’unica vista agognata è la tua pallina bianca in centro fairway. Se non si verifica, l’originale seduzione è svanita e serpeggiano le prime disarmonie: quella quercia è stupenda, ma mi costringe a droppare con penalità; quel laghetto solcato da pape relle (svassi? Germani reali?) è una delizia ma intanto s’è inghiottito il mio ferro al green e il mio progetto di par. La natura che ci affascinava s’è già rivelata matrigna. Ma non è nemmeno questo il punto-chiave. L’implacabilità del golf risiede, soprattutto, nel denudare i limiti del Carrellante che, a ogni uscita, si sottopone volontariamente a un test sulla sua capacità di conver-
tire la teoria in pratica. Gli esami, ammettiamolo, non piacciono a nessuno, ma sono sempre una sfida. E 18 buche sono un esame continuo, da un giro all’altro e perfino nello stesso giro. Lo stesso colpo sulla stessa buca con lo stesso ferro ora decolla perfettamente, ora striscia (o piega, o rantola) perdendosi nell’indefinito.
E il Carrellante si trova costretto a prendere atto, con dolore, di non saper ripetere lo stesso gesto per un nu mero ragionevole di volte. All’atto di portar dietro il bastone per caricare il colpo, non sa cosa aspettarsi da quello che accadrà un attimo dopo. Nei giornisì, non ci sono incognite; nei giorni-no, non ci sono certezze. È proprio questa continua verifica della nostra capacità di passare dalla teoria alla prassi la ragione che ci spin ge a provare e riprovare, giocare e rigiocare.
Domani è un altro giorno, pensiamo sull’ultim fairway di un round disgraziato. E infatti l’ultimo approccio spesso risulta impeccabile, lasciandoci la voglia di ricominciare. Se fosse possibile, anche un minuto dopo la 18esima buca. Sono quelli definibili come i «colpi del buon ricordo», lo zuccherino che, dopo tante amarezze, tiene in vita la fiammella della speranza di
saper giocare.
Questo ho capito, non l’essenza del gioco che, per definizione, è inconoscibile (Emanuele Kant ci ha costruito una discreta carriera con la storia del noumeno, l’inconoscibile essenza della realtà: e non giocava a golf…).
Ho capito che giocare a golf è fare i conti con se stessi; ho capito che giocare a golf è costringersi a non ripetere sempre gli stessi errori (esempio: restare corti ai green solo per non prendere un ferro in più); ho capito che dover imbucare un putt alla 18 per vincere (o, Dio
ci scampi, evitare una virgola) mi dà più tensione che affrontare una diretta in tv di molte ore. Ma non chiedetemi come si gioca a golf. Questo non l’ho capito.